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"Il gattopardo" di Tomasi di Lampedusa - vale la pena leggerlo?

“Il gattopardo” è una nitida fotografia del momento di passaggio dal regime borbonico al Regno d’Italia. È ambientato in Sicilia, dove Don Fabrizio, il principe di Salina all'arrivo dei Garibaldini, sente inevitabile il declino e la rovina della sua classe. Approva il matrimonio del nipote Tancredi, senza più risorse economiche, con la figlia, che porta con sé una ricca dote, di Calogero Sedara, un astuto borghese. Don Fabrizio rifiuta però il seggio al Senato che gli viene offerto, ormai disincantato e pessimista sulla possibile sopravvivenza di una civiltà in decadenza e propone al suo posto proprio il borghese Calogero Sedara.


Don Fabrizio è il classico rappresentante del ceto aristocratico e contempla con scetticismo e disprezzo l’arrivo delle truppe di Garibaldi. Tancredi è, invece, simbolo di una gioventù più dinamica e si arruola nell’esercito sabaudo. Quando Don Fabrizio esprime qualche dubbio in merito alla sua scelta, il nipote gli risponde con la celebre frase: “Bisogna che tutto rimanga com’è, se vogliamo che tutto cambi”. Mi sono interrogata a lungo sul suo significato, e sono giunta a questa conclusione: è necessario che avvenga un cambiamento, ma non deve avere luogo. Sembra una contraddizione, ma quello che vuole farci intendere l’autore è che per attuare una grande rivoluzione non servono gesti eclatanti; il cambiamento deve verificarsi internamente, nel pensiero e negli ideali delle persone.


Questo libro vuole anche farci interrogare sul nostro senso etico in quanto cittadini. Nel quarto capitolo, Don Fabrizio parla con Chevalley dei Siciliani, affermando che “non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria”. E poi ancora: “Si muore con una maschera sul volto; anche i giovani”. Leggendo queste parole, mi sono sentita chiamata in causa: mi sono chiesta se anch’io, da cittadina, mi sento perfetta. Mi sono chiesta cosa faccio per migliorarmi e se ciò è abbastanza. La sensazione della gioventù di ogni epoca è di impotenza rispetto a un sistema che non riesce (o non intende) combattere.


Infine, un altro tema trattato è quello della morte. A quella di don Fabrizio è dedicato un intero capitolo, il settimo. Essa rappresenta la fine definitiva della casa Salina perché, nonostante don Fabrizio avesse degli eredi, lui era l’unico a conservare le tradizioni e i ricordi vitali. “Era inutile sforzarsi di credere il contrario, l’ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo”. La sua morte ci ricorda anche la dimensione precaria della vita (“questa impercettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione, per così dire, della sensazione di vita”). Per il protagonista è fonte di tormento e ribrezzo, ma anche conquista di tranquillità.


Questo libro è senza dubbio un caposaldo della letteratura italiana per la sua accuratezza storica e la raffinatezza del linguaggio, ma ho fatto molta fatica a terminarlo, probabilmente a causa delle lunghe sequenze descrittive e dell’uso arcaico della lingua italiana. Posso dire, però, che ne è valsa la pena e che sono contenta di aver approfondito il Risorgimento italiano.




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